IL CASO VALENTINA MILLUZZO: Riflessione sull’obiezione di coscienza

Il caso di Valentina Milluzzo, la donna morta all’ospedale Cannizzaro di Catania il 16 ottobre scorso, ha riacceso i riflettori sulla problematica dell’obiezione di coscienza in Italia.

La giovane, al quinto mese di una gravidanza gemellare, era ricoverata da 15 giorni per una dilatazione dell’utero anticipata. Entrambi i feti erano entrati in crisi respiratoria ma il medico di turno, secondo la versione fornita dai familiari della donna, si sarebbe rifiutato di intervenire in quanto obiettore di coscienza.  Questo, sempre secondo le testimonianze dei familiari, avrebbe portato la donna prima ad essere trasferita in rianimazione, tra dolori e sofferenze, poi alla morte.

Al momento sono indagati dodici medici con l’accusa di omicidio colposo plurimo. Le indagini sono un atto dovuto dopo la denuncia da parte dei familiari. Per fare chiarezza sulla situazione, il Ministero della salute ha mandato degli ispettori. Essi, però, hanno escluso che la vicenda sia legata all’obiezione di coscienza e hanno affermato che, dal momento del ricovero, la donna ha ricevuto un trattamento assolutamente adeguato al suo quadro clinico.

Nonostante ancora non sia chiaro cosa sia effettivamente accaduto all’ospedale Cannizzaro, con questo episodio, l’obiezione di coscienza è sicuramente tornata ad essere un “tema caldo” per l’opinione pubblica.

 

L’obiezione di coscienza consente a un soggetto di rifiutarsi di assolvere un comportamento previsto dalla legge, in quanto i suoi effetti sarebbero contrari alle proprie convinzioni religiose, ideologiche o morali. Secondo la Commissione Nazionale di Bioetica g :

  • l’obbligo di tenere un determinato comportamento  previsto per legge (es. obbligo della leva militare, praticare un aborto se una donna lo richiede) ;
  • l’esistenza di un valore fondamentale che un soggetto ritenga non essere rispettato dalla legge;
  • la possibilità, prevista dalla legge, di tenere un comportamento anche ad essa contrario

Viene quindi riconosciuto un diritto soggettivo all’obiezione di coscienza, intendendosi con tale espressione che, in particolari casi, è possibile che l’interesse individuale prevalga su quello collettivo, quando, alla base di esso, vi siano convincimenti radicati e profondi tali da non poter essere ignorati dal nostro ordinamento (religione, opinione politica, ecc.).

Per l’appunto, il rispetto di tale diritto si ritiene necessario in quanto posto a tutela dell’identità della persona e della sua libertà di pensiero e di coscienza e perciò considerato inalienabile.

La stessa Corte Costituzionale italiana riconosce, con una sentenza del 1991, che la coscienza non può essere vincolata per legge ma solo disciplinata, in quanto espressione della libertà e della dignità della persona umana.

L’obiezione può articolarsi in diverse forme, dall’obiezione al servizio militare, venuta meno con l’eliminazione della leva obbligatoria, a quella relativa alla sperimentazione animale, passando per l’obiezione medica a pratiche di fine vita o abortive.

È di quest’ultima forma che si occupa la legge 194 del 1978 che contiene le “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.

 

Il difficile compito di questa legge è quello di bilanciare il diritto della donna di scegliere se continuare o meno una gravidanza e la libertà di pensiero e di coscienza, garantita ad ogni individuo, e quindi anche ai medici, da numerose fonti internazionali, a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata dalle Nazioni Unite nel 1948 (art 18). Anche il Consiglio di Europa si è occupato di questo tema con una risoluzione del 2010. Vengono, con tale atto, invitati gli Stati a garantire, da una parte, l’accesso alle cure mediche e alla salute, e dall’altra ad assicurare la libertà di pensiero, d’opinione e di coscienza, sviluppando normative sul tema dell’obiezione in materia di assistenza sanitaria e servizi medici.

Tornando alle disposizioni nazionali, la legge 194 del 1978 riconosce innanzitutto la possibilità per la donna di interrompere volontariamente la gravidanza entro i primi novanta giorni, rivolgendosi a ospedali pubblici, consultori o specifiche strutture socio-sanitarie.

Sono garantiti alla donna tutti gli accertamenti sanitari necessari e i medici sono tenuti a esaminare ed esporle tutte le possibili soluzioni, soprattutto se l’interruzione viene motivata con problematiche economiche, sociali e legate alla salute fisica e psichica della gestante.

La legge, d’altra parte, riconosce, all’articolo 9, anche il diritto dei medici e del personale sanitario a non prendere parte alle operazioni di interruzione volontaria di gravidanza, qualora presentino obiezione.

Questo non li esonera però dall’assistere la donna nelle fasi che precedono e seguono l’operazione stessa. Qualora i medici che abbiano presentato obiezione di coscienza prendano, però, parte a tali operazioni, l’obiezione stessa viene revocata.  La normativa prevede inoltre che il medico obiettore deve intervenire se ciò è necessario a salvare la vita della donna.

 

Il medico che si rifiutasse di prestare la propria assistenza in situazioni di pericolo di vita della donna, potrebbe essere accusato, secondo le circostanze, di omicidio colposo (le conseguenze di una azione possono essere previste ma non sono volute) o addirittura di omicidio volontario come previsto dal nostro codice penale.

 

La situazione è però ben diversa nella realtà. Annualmente il Ministro della salute presenta al Parlamento una relazione sull’attuazione della legge 194 del 1978. Nella relazione per l’anno 2015, la ministra Lorenzin ha sottolineato come sul territorio nazionale si sia arrivati alla presenza del 70% di ginecologi obiettori nel 2013.Con percentuali così elevate di obiettori, che si alzano ulteriormente in alcune regioni del sud, può diventare difficile, se non impossibile, garantire il diritto della donna ad interrompere volontariamente la gravidanza e a ricevere l’adeguata assistenza.

 

Pur essendo quindi riconosciuto formalmente tale diritto alla donna, diventa difficile che lo stesso sia garantito anche a livello sostanziale.  Non è infatti previsto alcun obbligo per gli ospedali di avere tra i propri medici soggetti che non abbiano presentato obiezione di coscienza. In questa direzione si muove una proposta di legge presentata nel maggio del 2014 il cui  primo firmatario è l’onorevole Labriola. Tale proposta suggerisce di integrare l’articolo 9 della legge 194 prevedendo che gli ospedali debbano garantire la presenza di almeno il 50% di medici non obiettori. Sicuramente un’aggiunta del genere andrebbe a garantire maggiormente il diritto della donna di interrompere volontariamente la gravidanza. La proposta è rimasta però tale e non è ancora stata discussa né alla Camera né al Senato.

Ultimamente, però si stanno facendo strada anche voci che vanno nella direzione opposta. Forte è la volontà di estendere la possibilità dell’obiezione di coscienza al di là dei limiti previsti dalla legge 194. Il 4 maggio 2016 è stata presentata una proposta di legge che vede come primi firmatari gli onorevoli Gigli e Sberna. Essi affermano, nella relazione alla proposta di legge, che il progresso scientifico, biomedico e farmaceutico renda necessario il riconoscimento di un generale diritto all’obiezione di coscienza, da estendersi anche a categorie diverse da quelle per le quali è attualmente previsto.

 

In particolare la proposta di legge riconoscerebbe la possibilità di presentare obiezione di coscienza anche ai farmacisti titolari, direttori o collaboratori di farmacie relativamente alla vendita di farmaci con effetti abortivi o finalizzati alla sedazione terminale.

Il dibattito sull’obiezione di coscienza è sicuramente ancora aperto e ben lontano da essere risolto. D’altra parte non è sicuramente semplice riuscire a garantire nella giusta misura due diritti fondamentali come la libertà di pensiero e di coscienza e il diritto della donna ad abortire e che si trovano contrapposti in maniera così marcata. La legge 194, riconoscendo la possibilità di interrompere volontariamente la gravidanza e riducendo così enormemente gli aborti clandestini, è stata sicuramente un grande passo avanti in materia. Le donne vengono così tutelate nella loro libertà di autodeterminazione ed effettuano le operazioni di aborto in ambienti sicuri e senza troppi rischi. Forse però sono necessari ulteriori interventi in materia, indirizzati a far sì che tale diritto, formalmente riconosciuto oramai da anni, sia anche concretamente attuato.

 

Alessia Fortino

 

2016-11-23T16:12:17+00:00