Il 19 agosto di quest’anno, con una violenza inaudita le forze dell’ordine operavano lo sgombero dell’occupazione di Piazza Indipendenza, dove vivevano da diversi anni centinaia di rifugiati.
Le immagini degli agenti in tenuta anti-somossa e degli idranti contro donne uomini e bambini hanno fatto il giro del mondo; simbolo di uno Stato ingiusto che, prima abbandona e, poi, criminalizza chi vive in condizioni di povertà.
Dopo quell’accaduto, il Comune di Roma ed il Governo, spinti dalla pressione delle mobilitazioni, dalle proteste e dall’indignazione emersi nei giorni successivi, hanno dato vita ad un vero e proprio bluff.
Si è cominciato a parlare di un percorso di riconversione del patrimonio pubblico e privato dismesso verso un utilizzo sociale:
La Raggi ha fatto riferimento ai 200 mila appartamenti sfitti presenti nel Comune di Roma;
Minniti ha parlato del riutilizzo delle caserme e dei beni confiscati alla mafia e con una circolare, che aveva il sentore di essere una pessima “pezza a colore”, ha ordinato “nuove linee guida sugli sgomberi” dichiarando: “tra le disposizioni ci sarà sicuramente quella di non autorizzarli se prima non è stata concordata una sistemazione dove far alloggiare chi ne ha diritto. È una regola di buon senso, e non sarà l’unica”.
Dichiarazioni dello stesso Ministro che all’articolo 11 dell’ultima legge sulla “pubblica sicurezza” ha deciso di adottare la linea della “tolleranza zero” contro le occupazioni abitative, senza alcuna previsione di politiche abitative adeguate.
Auspicavamo , dunque, a un diverso atteggiamento dagli attori istituzionali: volto ad affrontare il problema della “casa” in questa città con politiche abitative lungimiranti.
Peccato, però, che la lungimiranza e la pianificazione politica non sono prerogative della giunta Raggi e che la soluzione “tirata fuori dal cilindro” dalla Sindaca sia quanto di più folle ci si potesse aspettare.
Infatti, con determina del 27 ottobre, il Comune di Roma ha deciso di aprire una procedura negoziata per il reperimento di strutture temporanee di accoglienza destinate, in prima istanza, a quei “nuclei familiari in condizioni di estrema fragilità e/o sottoposti a sgomberi e sfratti”, predisponendo un bando per “il reperimento di strutture di accoglienza temporanea, articolata in moduli abitativi, anche prefabbricati, per ospitare nuclei familiari in condizioni di grave vulnerabilità sociale per un numero massimo di 100 persone” entro il 1 dicembre, per la durata di 365 giorni all’importo di 890.600,00 euro.
La determina del Comune di Roma viene pubblicata il 27 ottobre, fissando al 15 novembre il termine ultimo per la presentazione delle offerte e al 1 dicembre la data di attivazione delle “strutture di accoglienza” per gli sgomberati.
Tempi strettissimi che hanno portato subito la stampa a ritenere plausibile come unico possibile aggiudicatario la Croce Rossa Italiana che, da diversi mesi, stava riorganizzando il campo di via Ramazzini attraverso dei moduli prefabbricati rispondenti perfettamente in numeri, capienza e struttura ai requisiti richiesti dal bando per aggiudicarsi gli 890.600,00 euro.
Nelle scorse settimane ci siamo recati, infatti, presso il centro della CRI di via ramazzini per visionare le nuove strutture prefabbricate e per chiedere informazioni a riguardo.
Dopo una breve visita al nuovo campo così riorganizzato, abbiamo voluto incontrare il responsabile delle attività sociali della Croce Rossa Italiana di Roma, Lino Posteraro, il quale ci ha confermato che la CRI aveva già predisposto da giugno il montaggio dei moduli abitativi; “un investimento necessario”, ci dice, poiché le tende risultavano inadeguate ad ospitare per lunghi periodi i richiedenti asilo che rimanevano nel campo fino a quattro mesi, a causa della mancanza di posti nei centri CAS.
Un investimento lungimirante, verrebbe da dire, della Croce Rossa Italiana che risponde perfettamente ai requisiti richiesti dalla determina del Comune e che risulta essere l’UNICO ENTE CHE HA PRESENTATO UN’OFFERTA PER IL BANDO, rendendosi di fatto l’aggiudicatario della gara.
Ma parliamo delle strutture: le abbiamo fotografate e visitate al loro interno. 17,5 mq per 5/6 persone, dunque non in linea agli standards di vivibilità previsti in casi di emergenza (le Linee Guida della Protezione Civile parlano di 4,5 mq a persona), assenza di finestre e vetri (sostituite da “utili” sportelli di plastica e retine anti-zanzare).
Si tratta di prefabbricati che erano state pensate da UNHCR di concerto con IKEA per i rifugiati, da installarsi in modo rapido e per dare riparo in emergenza a tutte le persone che fuggivano da guerre o crisi-geopolitiche. Ma tali ragioni dove sono qui a Roma? Cosa pensa l’UNHCR del fatto che tali strutture ora siano destinate ad ospitare delle famiglie sgomberate per un periodo di un anno?
Un campo-profughi finalizzato, si legge nella determina, a “combattere i processi di ghettizzazione”,
dove ogni ospite dovrà firmare l’entrata e quindi certificare i propri spostamenti. Dove ogni ospite sarà di fatto “ospedalizzato” con fornitura di pasti in orari prestabiliti. Dove ogni famiglia sarà costretta a condividere, magari con altre persone, un angusto dormitorio.
Il tutto per affrontare un’emergenza abitativa che per sua natura deve trovare soluzioni di lunga durata, che coinvolge circa 50.000 persone e che non potrà essere risolta, evidentemente, con l’installazione di casette prefabbricate fuori standards. Dopo aver visto e aver criticato le soluzioni approntate dal governo per l’emergenza abitativa che tutt’oggi affrontano le popolazioni terremotate dell’Italia Centrale, mai avremmo immaginato che tali soluzioni venissero approntate in una città come Roma. Da tempo discutiamo sul concetto stesso di emergenza e di come una buona pianificazione amministrativa e politica potrebbe ridurne i confini, ma oggi siamo arrivati al paradosso: adottare delle soluzioni emergenziali per affrontare delle problematiche strutturali. Portare l’emergenza dove non c’è l’emergenza ma mancanza di soluzioni politiche.
Il fine, evidentemente, risulta essere quello di segregare i marginali; di procedere ad una loro espulsione dalle nostre città del “decoro” o, al massimo, di collocarli in campi controllati.
Una soluzione folle dal punto di vista sociale: persone e famiglie che hanno la loro autonomia ed a cui dovrebbero essere forniti degli strumenti di emancipancipazione dalla condizione di povertà,di fatto, vengono ghettizzati ed ospedalizzati.
Una soluzione irragionevole dal punto di vista finanziario: per realizzare questo ghetto per 100 persone il Comune sta spendendo quasi un milione di euro.
Decisione che evidenzia la volontà della Giunta Raggi di non voler utilizzare i finanziamenti messi a disposizione dalla Regione che, con una delibera di maggio 2017, ha stanziato 30 milioni al Comune di Roma per il recupero e l’autorecupero di alloggi popolari da destinare a quanti aspettano in graduatoria Erp, agli abitanti dei residence e a quelli delle occupazioni.
In questi mesi stiamo lavorando quotidianamente in una delle periferie più complesse di Roma, Tor Cervara, ed abbiamo avuto contezza di quanto grave sia la questione sociale sottesa alla mancanza di reali politiche abitative e più in generale di welfare nella nostra metropoli.
Abbiamo avuto modo di testimoniare quanto dannoso può essere l’approccio teso a trattare come problemi di ordine pubblico quelle che in realtà sono delle ingiustizie sociali sedimentate da tempo nel nostro tessuto sociale. Abbiamo conosciuto italiani, rumeni e migranti costretti ad occupare immobili, spesso dismessi, nelle periferie della capitale italiana e vogliamo denunciare l’evidente lesione della loro libertà e dignità dovuta alla ghettizzare in un campo costretti a vivere in dormitori prefabbricati per un anno.
Pensiamo, nel contempo, che la determina del Comune di Roma, oltre ad essere ingiusta, sia anche illegittima, viziata in numerosi profili che abbiamo intenzione far emergere. Stiamo, infatti, valutando la possibilità di impugnare questo provvedimento.
Si apre una battaglia importante che, siamo convinti, riguardi tutti e tutte noi:
accettare passivamente questo provvedimento significa assecondare la logica imperante che vorrebbe ghettizzare i poveri ed i marginali; significa continuare a trattare delle importantissime questioni sociali soltanto nell’ottica repressiva ed emergenziale.
Noi non ci stiamo, perché siamo convinti della necessità che alle politiche del controllo e della sicurezza si debbano sostituire delle politiche di welfare reali che tutelino i diritti fondamentali di ogni persona.